LEGAMI MAM'S Galleria d'arte contemporanea di Sassoferrato Maggio 2020
Legami è un doppio senso voluto, cercato. Un senso di appartenenza e una volontà espressa.
Mai come ora la parola "LEGAMI" ha un peso specifico di estrema rilevanza: l'espressione della volontà di essere inclusi nel mondo di qualcun altro, oppure, l'essere già parte, collegati da un filo invisibile, a un passato remoto, a una vita altra dalla propria. Un'inclusione ereditata da abbracciare e conservare per la costruzione di un futuro, in cui la parola "insieme" sia quanto mai preziosa.
Segni e graffi come partiture di storie che ne lasciano presupporre altre e poi, ancora, storie da scrivere e da immaginare.
Un segno deciso, ma di estrema delicatezza.
Laura Coppa Marzo 2020
Il Rumore del mio silenzio Fondo Fileni, Cupramontana Maggio 2019
Il silenzio, da cui prende il nome l’esposizione, diffonde la quiete nella quale l’ispirazione si nutre. In questo stato di grazia l’artista imposta la sua ricerca, il suo metodo ed una gestazione composta nelle realizzazioni delle sue opere, nelle quali la visione iniziale diventa sapiente maestria e conoscenza della materia e delle tecniche pittoriche. L’artista vuole fare partecipe lo spettatore della sua arte, trasmettendo le tracce di questo processo. In questo svelarsi durante le fasi di gestazione Lorenzetti non solo aggiunge al risultato finale una circolarità narrativa, ne innesca la condivisione del gioco creativo con il pubblico; ne fa intuire e fluire un divenire molteplice nel quale la fase temporale e la composizione prendono forma.
A cura di Marco Ferrazzani e Giorgio Belardinelli.
Testi in catalogo di Camilla Boemio, Laura Coppa e Viviana Quattrini.
Laura Coppappa
Astratto, informale o espressionismo astratto?
Termini che viene naturale usare, parlando dell'opera di Juri.
Eppure, a guardar bene, possibilmente sbagliati.
Juri Lorenzetti non "astrae" nessun complemento da un'immagine che possa essere ritenuta compiuta nella sua finitezza. Non sintetizza, non scarnifica, non esalta lo scheletro che, quella stessa forma, la lascia intuire.
Nell’opera di Juri non è contemplato ciò che è informe, perché le stesse linee, le graffiature, i segni linguistici a volte e le spatolate di colore, generano forme reali e concrete, seppur liquide, seppur cangianti.
C’è instabilità, mutevolezza continua in quella che, non è un vera e propria immagine, ma più esattamente un’ombra cromatica che de-forma di volta in volta la vista di una città, di una giornata di pioggia, di un mare in tempesta o di un paesaggio lunare.
È l’evocazione continua di ambienti e luoghi – forse inesistenti – a far percepire come forzato l’inserimento della poetica di Juri Lorenzetti in quello che viene comunemente inteso come «espressionismo astratto».
Definizione questa che sembra stridente per ben due motivi.
Un primo motivo è meramente storico e anacronistico. Il motivo generazionale è poi rincalzato da una specificità dell’opera in questione dove, le forme di colore mutano costantemente, quasi influenzate da agenti prettamente esterni come possono essere buio e luce, eventi atmosferici e altri impedimenti visivi. Juri sembrerebbe non percepire la potenza emotiva di un’immagine, bensì raccoglierne le potenzialità evolutive, energetiche e ogni possibile capacità trasformativa.
Le immagini che compongono le opere di Juri sono così come le vedono i suoi occhi prima, la sua mente poi e che, infine, la sua mano traduce in linee, blocchi di colore e segni abrasivi. Immagini dipinte dal colore e interpretate dalla luce. E dal buio, anche. Scene in movimento selezionate, filtrate da un vetro bagnato e tagliate da un raggio di visione rotto, come scheggiato. Eppure, sono vere e proprie «composizioni complesse», dove il minimo dettaglio e la minuzia hanno lo stesso peso specifico di un accento, di una virgola e di un punto: elementi essenziali per una lettura che non inciampi nel frainteso.
Graffi bellissimi, strappi di colore intenso che muta, si fonde e poi evapora in nubi cromatiche che coprono e scoprono i complementi armonici che fanno l’interezza dell’opera, musicandola in un componimento emozionale.
Perché, se c’è una cosa che proprio non manca nella ricerca pittorica di Juri Lorenzetti, quella cosa è l’armonia, appunto, o meglio, le armonie. Il giustapporsi dei colori e il loro fumoso dissolversi, l’intervallarsi di cromie complementari, forti, brillanti, ma mai
scontate, che creano vere e proprie tavolozze «musicali». Come musica, seppur graffiante, è pure quel rumore stridente delle scalfiture sul supporto pittorico che accompagna il silenzio della genesi creativa: ed è esattamente questo, il rumore che presiede il silenzio.
Imprimiture di colore pastoso e lacerazioni che cicatrizzano, grovigli energetici che si condensano al centro della tela, nel punto d’incontro di due opposte direttirici: una verticale e l‘altra orizzontale. È in questa porzione che si concentra prevalentemente l’attenzione, enfatizzando una visione discontinua, ma non frammentaria, bensì aggrovigliata in un nucleo cromatico che, divampando, lascia tracce di polvere e di echi, ma sempre nel pieno rispetto del bianco e del vuoto della tela.
Laura Coppa (Il rumore del mio silenzio) Maggio 2019
Marco Ferrazzani
Ogni tipologia di arte si addice perfettamente a svariate tipologie di persone;
L’arte contemporanea non piace a tutti, si sa. Va osservata, capita, rivista più volte e assimilata pian piano.
Può essere paragonata ad un linguaggio. Bisogna conoscere la lingua e comprenderne ogni sua sfumatura per non creare fraintendimenti e per apprezzarla.
Un mondo veloce, quello del contemporaneo, fatto di concetti, forme e movimenti, dove tutto si distrugge e tutto si riforma in modo rapido e imprevedibile, e solo gli artisti in grado di cambiare passo e cavalcare l’onda del cambiamento e del rinnovo, riescono a galleggiare in questo vasto oceano.
Il linguaggio di Juri Lorenzetti è un dialetto innovativo, esplosivo, giovane e fresco, parlato con una chitarra elettrica in mano urlato a squarciagola.
Le linee di demarcazione delle sue opere non hanno confini, si confondono e si mescolano con gli ambienti che le circonda, dando una sorta di tridimensionalità dell’opera stessa e alle pareti interessate.
La Semplicità e l’eleganza sono i tratti somatici dei lavori di Lorenzetti, opere dai toni marcati e decisi che fanno presagire carattere e risolutezza di chi le ha ideate e realizzate.
Osservare la mostra “ll rumore del mio silenzio” è un’emozione che arriva all’anima, una di quelle sintonie che raramente avvengono; opere sincere generose di colori ed esplosioni cromatiche, linee geometriche che rapiscono il cuore e l’anima e che pezzo dopo pezzo, vanno a comporre in completa armonia questa mostra personale.
Juri, attraverso il lessico delle sue opere, parla di profondo rispetto, di amore per il colori, utilizzando forti contrasti e lo fa attraverso dei vocaboli semplici, diretti, che arrivano chiari e limpidi agli occhi di chi le guarda. L’artista, in questa mostra personale ha voluto utilizzare uno slang tutto suo, riuscendo a realizzare con eleganza, un piacevole contrasto tra le sue opere e la settecentesca Galleria San Lorenzo di Cupra Montana; il risultato è senza dubbio emozionante ed entusiasmante.
Il profumo inebriante dei colori vivaci delle opere di grandi dimensioni, inducono a delle importanti riflessioni sull’eloquenza dei tratti incisi e scalfiti della vernice e sulle molteplici tecniche utilizzate dall’artista per completare il lavoro.
Questa mostra, è caratterizzata da coraggiose prese di posizione, l’artista infatti vuole stupire utilizzando dei supporti tondeggianti, che evidenziano un contrasto affascinante e retrò, richiamando in qualche tratto una terminologia antiquata che riprende vita attraverso le generose sfumature di vernice e le pulite e sincere linee geometriche.
Il percorso tracciato da Juri Lorenzetti è quindi chiaro e ben delineato, ed ha tutti i requisiti che lasciano presagire di essere un viaggio lungo, pieno di avversità ma comunque in grado di raggiungere il traguardo prefissato; ben consapevole di avere una valigia sufficientemente ampia per farci saltare dentro tutte le prospettive e le occasioni future, senza peccare di presunzione.
Marco Ferrazzani Maggio 2019
Viviana Quattrini
Condizione necessaria ed imprescindibile della prima fase creativa del lavoro di Juri Lorenzetti è il silenzio non come assenza di suono ma in quanto stato mentale di assoluta attenzione che predispone ad una profonda concentrazione su se stesso, sui propri ricordi e visioni. La sua pittura si forma così per rievocazione e comunica attraverso il suono sottinteso degli strumenti che l’artista utilizza affinché le immagini emergano. La pennellata è veloce e l’immagine si crea tanto per stratificazioni e campiture di colore quanto per sottrazione e incisione attraverso spatole, chiodi e lame. Il rumore del mio silenzio metaforicamente è proprio questo scavare la superficie per entrare in contatto con la parte più profonda e silenziosa di se. Il processo che porta Lorenzetti a realizzare le sue opere è quindi forte ed intenso. Il suo stile si compone di atmosfere dal colore velato e fluente e da una vena più geometrica e incisiva del segno memori di quelle ricerche che hanno caratterizzato l’informale segnico e gestuale ma anche di una concezione del tempo interiorizzato e Bergsoniano come continuo di passato, presente e futuro dove percezione e memoria agiscono reciprocamente nella creazione di immagini.
In Tutte le parole non dette come lettere mai partite, l’artista pone l’accento sul vuoto che si sviluppa dalla carenza della comunicazione verbale per esprimere i propri sentimenti. L’immagine nasce dalla consapevolezza di una costante dicotomia tra la parte visibile e quella nascosta. Le parole imprigionate, sono divenute essenzialmente gesto, si tramutano così in segni dell’inconscio che come monologhi scorrono informi dentro di noi in pensieri senza sintassi e interlocutore.
In tutte le sue opere si nota una contrapposizione interna tra l’ideale e la sua terrena controparte. Le stesse forme del cerchio “celeste” e del quadrato “terreste” ricorrono spesso, sia nel formato del supporto che sottointese all’interno. Queste trovano nella croce il simbolo che le comprende entrambe a rappresentare la totalità dell’essere, la risoluzione dialettica degli opposti. I colori invece ricordano i quattro elementi dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco dal cui equilibrio dipende la vita della specie umana e la sopravvivenza del cosmo. L’equilibrio è per l’artista un elemento fondamentale, esso predispone alla buona riuscita dell’opera ed è solo tramite il suo raggiungimento che il lavoro può dirsi terminato.
La serie L’inferno dei Santi suggerisce quanto dolorosa sia la via dell’amore ma anche di quanto questa sia alla base di un vivere profondo, portatore delle più grandi imprese e trasformazioni. I toni scuri predominano calando dall’alto sull’intera composizione. Il rosso simboleggia sia l’amore che l’inferno a ricordare il sacrificio terreno del divino incarnato.
Nelle Metamorfosi invece entriamo in contatto con una pittura luminosa e di aerea leggerezza dove è il bianco a predominare e a sovrapporsi all’immagine che emerge dal centro come fosse una visione. Lorenzetti in questa serie parte da un unico segno continuo che di volta in volta assume forme diverse ad indicare la mutevolezza della natura e un’idea di spazialità e temporalità interne e a più livelli. Lo stesso soffermarsi a ricostruire un attimo come in Ascoltando la pioggia, Ciò che resta al risveglio, Oggi fa freddo, Mare d’inverno, Verso notte, Resto sveglio aspettando che torni la luce, ci relaziona con un sentire intimo, con l’importanza di un saper ascoltare che permette di andare oltre noi stessi per collegarci con il cosmo.
Viviana Quattrini (Il rumore del mio silenzio) Maggio 2019
Franco Pecori
Un oggetto qualsiasi - una pietra del monte o uno scarabocchio tracciato per caso su un pezzo di carta, una batteria di automobile o un’edizione preziosa della Divina Commedia - acquista valenza oggettuale non appena intenzionalmente si sia posto in un contesto, o materialmente o anche soltanto acquisendo intenzionalità in modo implicito. Nel con-testo entro cui "per forza di cose" viviamo, è condizione inevitabile l’essere interpretanti, ossia il far parte della catena virtualmente infinita di inventori/traduttori di senso. Ci accade per lo più in modo automatico, con risultati molto poco dinamici, con spostamenti di senso produttori di ridondanza. Insomma diciamo e gestiamo ovvietà. Ma di sicuro non esiste comunque oggetto oggettuale che sia senza senso. Sul piano dell’arte, ossia della produzione di senso maggiormente ricca (perché più fruttuosa nell’economia del linguaggio), il discorso non è qualitativamente diverso dalla situazione comune - dove per situazione comune si può andare dalla funzione di contatto in ascensore (tipo "signora mia dove andremo a finire") fino anche al ritratto pittorico in stile «tradizionale" (ripetizione «inutile" di stili e codici espressivi straconsolidati nella storia. E così via.
Della proposta di Juri Lorenzetti vista nella mostra di Arcevia colpisce lo scarto di «originalità", il rifiuto del paradosso e la ricerca del "mistero della semplicità", attraverso una lavorazione accurata e attenta alle conseguenze semiotiche e, insieme, ai pericoli della "trovata" referenziale. Un teschio non è più teschio eppure lo è, il suo oro è «prezioso" non più perché oro ma in quanto memoria archeologico/antropologica. L’oggetto è storico e a tale condizione parla un linguaggio futuro, con eleganza e perfino con leggerezza, ma con terribile (non eludibile) coinvolgimento. Si può seguire o meno il suggerimento della "ripetizione" infinita nel gioco speculare, ma vale di più il silenzio assordante che invita al discorso senza suggerirne realisticamente (oscenamente) i termini.
Franco Pecori Agosto 2016
ANDROGINO (2016)
Attraverso il gesto circolare che si fa segno, attraverso la sua ripetizione continua che si fa immagine, le opere di Juri Lorenzetti presentano, in una mostra omaggio a Gino De Dominicis, le fasi della gestazione quali spunto per un’indagine sul concetto di immortalità.
Prendendo ispirazione da lastre ecografiche, l’artista compie la propria ricerca in una dimensione misteriosa. Con il carboncino, la matita e l'acrilico ricrea quell’atmosfera di isolamento e sospensione in cui si trova immerso il futuro uomo. Si tratta di una realtà extra-terrena, conclusa in se, in cui si vive in un vero e proprio “status immortale” come lo definisce Lorenzetti. La “nascita” è in questo senso un passaggio, un avvenimento traumatico quanto la morte che con essa si confonde.
La forma base di questa serie di lavori è quindi un cerchio organico tracciato con la penna ad inchiostro. Simbolo di perfezione, ed elemento presente in molte opere dell’artista, tale figura, nella visione alchimista (rappresentata sotto forma di serpente che si morde la coda) indica anche la continuità della vita. In esso (embrione) e da esso (segno tracciato) si forma una vita che sia essa reale o immaginaria.
“Tutte le guerre e tutti i rancori dell’uomo derivano da una inconscia paura e coscienza della morte” diceva De Dominicis. L’unica soluzione a tale malessere è la ricerca del suo superamento. L’immortalità è in questo senso una presa di coscienza che presuppone l’idea di morte come conseguenza della dimensione terrena e materiale legata ai concetti di tempo e spazio.
De Dominicis affrontava tale questione con il paradosso ed esorcizzava l’idea della morte attraverso un punto di vista esterno come poteva essere quello del mito o quello del signor Paolo Rosa (giovane Down). In Lorenzetti l’immortalità assume un punto di vista intimo ed interno. Diviene la frazione di tempo di un orgasmo, l’atto d’amore che genera vita. L’artista ne vede la compiutezza nella forma del cerchio, nella rituale ripetizione di un gesto che sfocia nell’ atto "autistico". Questo si rinchiude in se stesso e si esprime nella forma compiuta dell’androgino.
Così narrava Platone nel mito di Aristofane: "E i sessi erano tre, in quanto il maschio ebbe origine dal sole, la femmina dalla terra, e il terzo sesso, che aveva elementi in comune con gli altri due, dalla luna, che partecipa appunto della natura del sole e della terra. Ed essi erano tondi e tondo il loro modo di procedere [...] Così erano terribili per forza e per vigore”.
Immortale è infine il ricordo del grande artista che ha saputo sorprendere e la cui morte rimane tuttora avvolta nel mistero. Lorenzetti tenta così di delineare il profilo di Gino De Dominicis in un opera in cui la cornice non riesce a trattenerne la traccia.
Juri Lorenzetti è riuscito così a tradurre un concetto tanto complesso semplicemente attraverso una linea che, torcendosi su se stessa, arriva alla compiutezza di una figurazione essenziale di estrema potenza. La nascita e la morte sono legate indissolubilmente e sono l’atto unico di una vicenda paradossale che è la vita. Se l’embrione è l’idea in formazione, il naso becco (omaggio alla Calamita cosmica di De Dominicis) è il paradosso, l’elemento sacrale e mostruoso che terrorizza ma, allo stesso tempo, è l’agente propulsore, la spinta interiore verso la ricerca etica dell’assoluto.
Viviana Quattrini
L' ARTE COEVA LA CAPISCE ANCHE UN BAMBINO
Facciamo una chiacchierata, fra un bicchiere di vino e una redbull, in piazza delle Monachette a Jesi. E’ una delle prime serate in cui la primavera si sente nell’aria e si sente addosso: siamo nel posto giusto e con la giusta compagnia, mentre la musica di un vinile scandisce le mie domande, le risposte di Juri, le prese in giro e le risate di entrambi.
Juri è giovanissimo. Un ragazzo brillante che si è costruito una vita da solo.
L’opera di Juri è prettamente emotiva e altamente evocativa. Come nell’astrattismo alla sua origine, riduce ogni parte dei singoli elementi in geometrie essenziali, per poi ricomporle in opere che, per eccezionale somiglianza e per puro rimando, esplicitano un soggetto, seppure le forme siano sintetizzate e come se scorte da lontano.
Tuttavia, Juri non segue le regole che sono alla base di un’astrattismo accademico e, tanto meno, quelle dei vari concettualismi. Juri trasforma tutto ciò che gli sta intorno in forme essenziali e di matrice umana: le geometrie appunto, e le linee rette intersecate.
Definisci la tua opera…Sembrerebbe ovvio parlare di astrattismo, ma usato così è veramente troppo generico.Non me ne sento parte, neanche di uno dei sottogruppi che comprende. Non mi piace inserirmi in qualche forma avanguardistica, nessuna di queste la sento mia fino in fondo! Io racconto, parto sempre da un qualcosa di cui ho voglia di parlare e, in base a quello, vado alla ricerca dei materiali più adatti a farlo nella maniera opportuna al caso. Non sono un astrattista, né un informale e né un artista concettuale! Sono uno che racconta di cose, di emozioni, di viaggi, di colori… Ogni opera è un pensiero improvviso e annotato su di un post-it; lo appunto e lo riprendo in seguito, per svilupparlo al meglio e con tutto il tempo necessario.
C’è comunque una profonda ricercatezza nei tuoi lavori. Come si svolge il processo di realizzazione di ogni opera? Intendo dire: parti da un soggetto ben definito per poi andare a togliere, a trarre via le parti descrittive in eccesso, o procedi in tutt’altro modo?
Ogni opera è in realtà una visione interiore che, appena comincia ad essere esternata, inizia un cammino completamente autonomo! Il lavoro finito non corrisponde mai al progetto iniziale! Dipende molto anche dal supporto che scelgo e che, inizialmente, penso sia più adatto. Il legno, ad esempio, conferisce alla resa dell’opera un’alchimia maggiore e ha una profonda corrispondenza con quella che è un’immagine mentale, per come la intendo io.
Una domanda scottante: sei un fine pittore figurativo… come mai hai scelto di abbandonare tale genere di pittura per sperimentarne uno opposto? (Ride, N.d.R.) Come l’hai scoperto? Mi sembrava di aver cancellato tutti gli indizi…
Diciamo che ho le giuste conoscenze…
Beh… la scuola mi ha insegnato a riprodurre la realtà così com’è, ma a un certo punto, mi è parso qualcosa di emotivemante secco e troppo “inscatolato”. Se volessi semplicemente immortalare un attimo che scorre o qualcosa che mi sta accanto, potrei farlo tranquillamente e molto meglio sfruttando il mezzo fotografico. Per me, come artista… anzi, come umile e mortale imbrattatele (Ride N.d.R), ciò che più conta è riuscire a parlare di quello che è invisibile agli altri e a ogni tipo di mezzo, analogico o digitale che sia! Dietro a ogni scorcio di realtà c’è qualcosa di cui vale la pena parlare… ed è su di quello che mi va di concentrarmi!
Nell’ultima serie di lavori hai praticamente ripulito ogni forma per farne delle geometrie pure. A cosa è dovuto questo ulteriore passaggio? Sì, ho ulteriormente modificato le forme minime dotate di senso che solitamente utilizzo e le ho alterate, rapportandole al cielo di notte. Questo perché, quello del cielo stellato, è uno dei momenti che preferisco! Per me è quasi un rituale, un momento della giornata che volge al termine e che attendo con ansia. È solo a sera infatti, che posso sedermi da solo, a bere un caffè e fumare una sigaretta in tutta tranquillità. Quello è il momento in cui viene a galla qualche idea e comincio a portarla lontano attraverso l’immaginazione. Penso… e sogno! E anche quella del sogno è realtà a tutti gli effetti: è quella che la mente restituisce, dopo averla finemente macinata…
So che sei anche un bravissimo performer pittorico: come vivi le estemporanee? Ti dico la verità, non è che le ami moltissimo… nel senso che, vivo i momenti precedenti con molta tensione. Parti così, senza un progetto e senza un canovaccio. E’ qualcosa di puramente irrazionale: sei lì, davanti alla tela e cominci a parlare di qualcosa, solo che lo fai ad alta voce! Alle volte può essere controproducente, perché è una serie di “battute” fatte di scariche adrenaliniche e capita che, alla fine, osservi quello che hai “scritto” sulla tela e ti spaventi. Non ti riconosci subito in quelle frasi pittoriche, ma sai che ce le avevi dentro. Il prodotto finale non è una vera e propria opera, ma è molto più simile a uno scambio di idee, alla comunicazione: una chiacchierata a più voci dove chi trascrive, arricchendo il testo con le proprie emozioni, sei solo tu.
Secondo te, l’arte è per tutti? Partiamo dal presupposto che tutti hanno in mano una forma d’arte che lo rende unico, dal contadino all’artigiano, e che segue dei processi, il più delle volte, agli altri oscuri. Anche nel caso dell’arte coeva, in molti casi, vi sono dei meccanismi, delle fasi che non sono di facile interpretazione. Occorre solo un po’ di ragionamento e, paradossalmente, quel tipo di supposizioni in cui sono abilissimi tutti i bambini! Per loro, l’arte coeva è un gioco e sono ottimi interpreti! Forse occorrerebbe guidare il fruitore per metterlo nella condizione di capire. D’altra parte, lo scopo dell’opera è proprio quello di mettere in moto determinate situazioni per cui, un minimo di comprensione e di empatia, deve essserci, altrimenti, è come parlare in una lingua criptata e comprensibile solo dallo stesso artista: si rompe la catena del “domanda e risposta” e il dialogo muore…
Raccontaci una tua opera… “Big Bang: e tutto ebbe inizio”. E’ l’opera a cui, per il momento, sono più legato. Volevo fare un lavoro sulla gravidanza, così ho chiesto ad alcune mie amiche di raccontarmi cosa avessero provato dal primo mese di gravidanza fino al parto. Il risultato è stato questo: dolore lacerante, rottura, sepazione e un amore profondo che sovrasta su tutto.
Dove ti vedi in futuro?
Qui, in Italia. Voglio lavorare nel mio paese. Ho la fortuna di aver conosciuto tanta bellissima gente, professionale e onesta. L’Italia è grande e io devo ancora fare tanta strada…
Juri ama ridere e si vede. Lo fa con tutti e lo fa in maniera spontanea, limpida. Vuole continuare a restare folle dice. La stessa follia che usa, mescolata all’entusiamo, in ogni cosa che fa e che gli torna indietro rafforzata. Infine, “folle" non significa essere eccelsi locutori (“Io non sono bravo a parlare!” – ha continuato a ripetermi per tutto il tempo), ma non voler smettere mai di trasmettere infinite emozioni, qualunque sia il mezzo di cui si disponga, come pure con un semplice gesto fatto di colore.
di Laura Coppa
Gabriele Bevilacqua
JURI LORENZETTI, ALLA RICERCA DEL MONDO RAPPRESENTABILE
Scrive Goethe nel suo Viaggio in Italia che solo quando le nostre simpatie si purificano e si precisano, l’animo può rivolgersi con tranquilla partecipazione alle cose più grandi e più genuine. Perché ciò accada l’arte bisogna cercarla e, se possibile, affiancarsi ad essa anche nel momento della sua formazione, nella ragionata traduzione visiva di un’idea (sì, perché, è Angela Vettese a ricordarcelo, l’idea da sola non basta). Lo stesso Goethe frequentò gli studi degli artisti tedeschi a Roma, con loro condivideva la genesi di opere che noi oggi ammiriamo nella loro perfetta e conclusa stesura.
Con questo spirito, vorrei segnalare parte della produzione di un giovane artista jesino, residente a Camerata Picena. Nato nel 1983, diplomato presso l’istituto statale d’arte di Jesi, ha già al suo attivo un ricco carnet di segnalazioni e mostre (personali e collettive). L’esordio è stato il premio come migliore progettazione dell’insegna scultorea della biblioteca di Maiolati Spontini, comune che pochi mesi più avanti lo invita a realizzare il logo per il nuovo centro di aggregazione giovanile. Nel 2011 gli viene conferito a Montecarlo il “Premio Oscar per le Arti Visive2011”. Ha esposto a Roma, Terni, Spoleto, Caserta.
Al di là di questi attestati lusinghieri, si tratta di una proposta tutt’altro che sprovveduta. L’arte di Lorenzetti, infatti, ricca di fermenti e sensibilità umana, ha a che fare con la materia: vorrebbe farla esplodere e al tempo stesso ordinarla, fissarla in modo cartesiano. Da una parte accelerazione e dall’altra un bisogno di rallentare. Lo afferma lui stesso: «La mia pittura opera in un’area di riflessione continua, una riflessione sul mondo intorno a noi (…). Basterebbe soltanto rallentarsi quel poco che basta per poter apprezzare il bello di ciò che ci circonda così da poter dare vita ad uno scambio reciproco di emozioni e sentimenti». Da qui una pluralità di esiti figurativi. Dai pittogrammi su fondo blu di Fluttuante (2012) al geometrismo quiete di Essenziale (2011), fino alla greve materialità, come un crogiolo alchemico in ebollizione, di Ferite (2010), con il suo acrilico oro e smalto nero su un deciso fondo di cemento. Lorenzetti saggia la materia, ma essa è pluralità di forme, è mortale, è segno esile, grafia che si spezza nell’ordito sottile dell’esistenza delle cose.
Questa fondamentale attenzione agisce sulla creatività del giovane portandolo a scelte iconologiche e tecniche diverse. Così mi pare giocoforza segnalare alcuni tentativi mediantela fotografia. In Contaminazioni(2011) la materia è diventata soffocante, miasma che ammorba l’aria e vince sulla creazione. Evidente è il rimando a certo immaginario da cinematografia fantacatastrofista -penso qui a 28 giorni dopo di Danny Boyle (2002).
Una segnalazione a parte meriterebbe la produzione grafica. Qui la riflessione sul mondo si fa più pacata, silente, attenta a geometrie di contenuti segni, ove lo stesso bianco del foglio diventa parte del racconto. Ritorna forse di nuovo la materia nel suo bisogno di trascendenza, di horror pleni, verso un segno che scandaglia e scandisce l’ordito del mondo, come in Eclissi (2012).
Non sappiamo quali di questi percorsi finiranno per prevalere e convogliare in sé tutta l’energia creativa del giovane artista. Ci piace comunque aver condiviso con lui, nel suo studio, la passione per l’arte. Ossia per quell’esperienza a volte puramente estetica, ma a volte, capace di avvicinarci a quelle grandi concezioni fino a comprenderle meglio di quanto non permettano la semplice osservazione e la riflessione (Goethe). Se sappiamo cogliere e far parlare anche questa tensione, sapremo dar seguito alle parole del grande poeta.
Gabriele Bevilacqua
(pubblicazione sul magazine n.giugno 2012)